martedì 10 gennaio 2012

INTERVISTA A JACK HIRSCHMAN, "POETA LAUREATO", SAN FRANCISCO, 2007

conversazione a cura di Marino Tarizzo, con il contributo di Enrico Mario Lazzarin.
café di San Francisco - reading del poeta jack Hirschman
Jack Hirschman è nato a
New York City nel 1933 e dal 1973 vive a San Francisco. E' uno dei maggiori poeti americani e in più occasioni è sato ospite della nostra Associazione per serate di poesia. Ha pubblicato più di 130 libri, ha trodotto Pasolini, Scotellaro, Artaud, Mallarmé ecc. Nel 2006 la città di San Francisco gli ha attribuito il riconoscimento di "Poeta Laureato" e nello stesso anno è stato pubblicato dalla Multimedia Edizioni il libro "The Arcanes" contenente l'intero corpus degli "Arcani". Durante il suo più  recente viaggio in Italia ha cortesemente acconsentito di raccontarsi ai lettori di "Corrente Alternata".
Marino - Se una persona non conoscesse Jack Hirschman, Jack preferirebbe presentarsi come un poeta utopista, un poeta lottatore o un poeta a cui non basta l'incanto del disincanto?
Jack - Mi piace molto l'espressione l'incanto del disincanto. Perché mi piace? Perché in questa intervista si tratterà di molte contraddizioni. Io non sono un poeta utopista. Poiché, come ha detto Lenin, non esiste pura ideologia,non esiste purezza e basta, noi siamo persone. E io sono poeta che vive nella vita sociale. La mia poesia viene dall'energia dei più vulnerabili. Anche se io sono portato a cercare, creare parole, la mia fonte sono i più poveri. Questo, ad esempio, è uno dei motivi per cui mi piace molto la parola di Pasolini. Perché da giovane ha scritto in friulano, lingua povera. Ed io inneggio al dolore, al coraggio, all'innocenza dei poveri. Cosa che Pasolini, pur giovanissimo, ha proposto già come grande poeta e profeta, nonostante le malevoli interpretazioni, anche "amiche", lo tacciassero per ciò quale reazionario. Ma lui riuscì in tal modo a decifrare il mondo con un intuito anticipato di trent'anni.
M. Ed è quindi per questo che è attuale oggi?
J. Sì, proprio così. Quindi utopista prroprio no. Lottatore, beh, sì, lottatore sempre. Perché? non so se vi è capitato di leggerle, ma alcune mie poesie sono state scritte per i gruppi di persone senza fissa dimora statunitensiche hanno polemizzato con un sindaco che ha istituzionalizzato un procedimento legale che prevede l'arresto di chi dorme in strada. un'ulteriore estensione del concetto per cui negli Stati Uniti essere poveri equivale ad essere criminali. Così, appena una settimana prima di questo viaggio in Italia ho partecipato a questa lotta. Come in ogni altra occasione, io sono sempre pronto ad oppormi a qualsiasi ingiustizia. In tal senso sono certamente un poeta lottatore.
M. Da anni viaggi instancabilmente per il mondo per recitare le tue poesie. Nel fare ciò prevale l'urgenza, il bisogno dell'appagamento personale del dire all'altro o una sorta di voglia di ricomporre la frattura, la scomposizione dell'aedo?  
J. Come ho avuto modo di dire nel raccontare il significato de "Gli Arcani" poesie lunghe e orchestrate, ho voluto presentare la sensibilità della gente con una impostazione strutturata e spirituale che forse prevede una forza interiore contro la frattura o Kairos in cui noi viviamo ora nel mondo occidentale. Altro aspetto per il lavoro del poeta, è quello di confrontarsi, se è fortunato, con la morte,  evocandola, non nel senso di resurrezione o incarnazione, bensì nella ricostruzione di quella forza interiore che è stata distrutta dalla seconda guerra mondiale e da tutte le altre guerre. In questo senso la mia poesia mi piecerebbe  potesse aiutare per il futuro le persone. Io non credo che la poesia non incida, non ci ho mai creduto. Non sono d'accordo con chi ha detto che "la poesia non fa niente". Io credo che la poesia serva alle persone che non hanno voce. In questo senso quindi non solo ai poveri.  Serve ad esempio agli operari in lotta per migliori condizioni di vita, serve per creare solidarietà. Per altro verso non credo possa essere terapeutica, ciò presupporrebbe persone malate. Io questo non lo penso, penso che tutte le persone siano poete.
M. Alcune letture della tua poesia riconducono ad una traccia cabalistica. Or ora hai parlato di spiritalità. Ci vuoi parlare di questo aspetto che sembra particolare per un poeta rivoluzionario?
J. Quando ero adolescente ero diventato involuto. Dopo la guerra con l'impegno politico sociale ho preso a scrivere poesia. Erano gli anni cantati dalla "bella bandiera" pasoliniana. Cominciando a scrivere ho naturalmente cercato di leggere tutti i poeti che ho potuto trovare. Un giorno ho trovato la Bibbia di Kabbalah, il nome Zohar, il "libro dello spendore". Scritto da Moise De Leon, che si è rivelato come un poeta, un giovane poeta molto interessante. In cui questi uomini, i rabbini, camminano sui sentieri parlando delle lettere, delle parole. Con concetti basati appunto sui discorsi, sulle lettere e su tante altre immagini straordinarie, abbaglianti. Così sono stato influenzato. Devo ricordare che io sono originario di una famiglia ebrea di New York, anche se non ero religioso ed ero contro il sionismo. Come direbbe Pasolini la mia era una famiglia piccolo borghese, ed ebbi modo di realizzare che la Kabbalah rappresentava per me, poeta, la sinistra del pensiero ebraico. Ed ha continuato a appresentarlo. In questi 45 anni ho imparato poco sulla Kabbalah anche se essa ha riguardato la mia poesia. Però se debbo dire, io che non sono utopista, ecco, forse i Kabalisti un poco utopisti lo sono. Io invece crescendo ho vissuto la mia vita sul filo di un forte senso dell'ingiustizia sociopoliticoculturale. E ho trovato la mia strada in sintonia con quella marxista. Ed anche leninista. Perché io credo che l'Unione Sovietica, la Rivoluzione russa abbia creato l'opportunità per donne e uomini di vivere con il senso delle possibilità. Come, ancora, nel Pasolini che mette la natura insieme alla "bella bandiera". Non si tratta solo di possedere materialmente delle cose, bensì di sentire una vera e propria monumentalità interiore. Cosa he io cerco, che cerco di recuperare in questo momento che credo sia il più potente nella vita dell'umanità. Anche se le gente, in particolare chi è nato dopo la caduta dell'Unione Sovietica, non ha memoria. Il più grande lavoro per l'arte, per me, è riferito a questo momento. Che pure è difficile a spiegarsi, è inesprimibile.  
M. Chi pensi oggi avrebbe la necessità di una "A" per sfuggire al proprio destino, donne, immigrati o chi altri? Oppure al contrario, non c'è da temere che rifiuterebbero la "A" pur di rincorrere il sogno di guadagno o di fulgido domani?
J. la "A" era propriamente un grado, il più alto. All'epoca dell'arruolamento coattivo per il Vietnam io ero professore e appresi che chi otteneva la "A" evitava la divisa. Così decisi che a tutti gli studenti, avrei assegnato la "A". Oggi è diverso. Ad esempio la guerra di oggi è fatta da volontari. Le guerre oggi sono diverse. La guerra in Vietnsm era guerra di ideologie. La guerra contro il terrorismo ha radici in entrambi i lati, nelle religioni e nel capitalismo. La cosa è più grave perché l'erosione delle aspettative di socialismo ne mondo ha permesso il riproporsi di elementi più arretrati. L'entrata in scena delle religioni richiede una ferma opposizione perché la difesa della laicità è una delle cose piùimportanti da salvaguardare.
M. Un tempo gli imprenditori scommettevano su progetti a medio/lungo termine. Due esempi. Ford, magari per interesse proprio, comunque voleva produrre in modo che tutti i suoi operai potessero comprarsi l'auto. Olivetti aveva cura dei suoi lavoratori con asili, colonie estive ecc. Oggi i manager vogliono sottrarre il malloppo alle classi sfruttate nel volgere dell'anno. Visto dalla parte della cultura umanistica, è semplice decadenza o uno dei tanti segnali d'attesa, anche interna ed inconscia, dell'apocalisse capitalistica?    
J. Questo è complicato. Provo a ragionare. I capitalisti non hanno interesse ad altro che fare profitti. Usano ogni strumento a tal fine. Un esempio: il computer. Anche se nel mondo tante persone usano il computer non è vero che ci fa più liberi. Certo se ne ha l'illusione, ma in effetti ha creato la prigione della comunicazione. Che è diventata banale, triviale e terrificante. Io, informandomi per scrivere un "arcano" su un pugile che è morto, ho trovato su un motore di ricerca tantissime pagine di boxe. Sono rimasto shoccato perché frammiste a queste ho trovato innumerevoli pagine di persone violate, donne. Mia moglie mi ha detto che a molti piace guardare tali violenze. E' una malattia, d'accordo, ma fa parte della prigioni della comunicazione. Per tornare alla domanda, l'introduzione di robot genera espulsione di operai. Esempio classico negli Stati Uniti, una fabbrica per produrre trattori girava con mille operai, con la robotizzazione ne bastano tre. Novecentonovantasette sono espulsi, inutili, sono finiti. E questo avviene ovunque nel mondo. Supponiamo ora che tutto nel mondo venga fatto dai robot. Per creare una casa prefabbricata bastano quarantacinque minuti. Tutta la catena alimentare è gestita da robot. E via esemplificando. Tutto ciò è forse tecnicamente possibile. Quindi quasi il raggiungimento ipotetico della felicità comunista. Cosa frena questo sogno? E' una vecchia storia. E' la proprietà privata, con spinta allo sfruttamento, alla competizione, ai profitti. Così noi, intendo io/noi che negli Stati Uniti  lavoriamo in un gruppo rivoluzionario, noi pensiamo sia necessario che le persone fuori dal sistema facciano la rivoluzione. Crediamo debbano farlo perché non hanno nulla da perdere tranne le catene. Queste sono le contraddizioni che ci fanno ritenere importante educare gli uomini  nel mondo su questa nuova classe di esclusi. Per esempio, a partire da Pasolini, si conoscono i temi della contaminazione tra classe operaia e borghesi. Ora, volendo usare una frasi di Giorgio Agamben, il computer ha reso, culturalmente parlando, tutto il mondo piccolo borghese. Ecco questa mi sembra una buona rappresentazione, il sogno tecnologico del mondo di diventare piccolo borghese. Però queste contraddizioni non ci devono far dimenticare che il fondo della nostra vita dopo la seconda guerra mondiale è la morte.In tanti diversi sensi. La morte diretta con la guerra, ma anche la morte più romanticizzata nel senso di Heiddeger, che pure ha influenzato il mio lavoro, perché per lui la risoluzione di tempo ed essere è diventata poesia. Per questo mi interessa molto la sua idea, anche se lui è stato un porco durante la guerra. Dopo non si può dire sia diventato marxista, ma un qualcosa di kabalista in lui si trova. Con Alicia la presenza contestuale al ritiro dell'esistenza ricorda il dualismo luce-scuro della Kabbala.
M. Lasciando stare i narcisi che si incipriano il sedere, quindi il volto, con scatolette di cultura autorizzata, a che livello pensi si ponga per le classi sfruttate la rivendicazione del bello, inteso come natura, arte, poesia?  
J. Quando sono stato espulso dall'Università, vivendo per strada, ho visto i veterani della guerra in Vietnam, ho frequentato persone senza fissa dimora e incontrato altre ingiustizie. Allora ho deciso di saltare all'identificazione con la classe operaia e con i poveri. In quel senso ho affermato che esistevo come poeta. Anche se dentro di me non mi penso come un poeta ma semplicemente come una persona che può fare una cosa che tutto il mondo può fare. In questo senso io ho messo il talento al servizio del futuro. Così come io non sono rivoluzionario solo pe vedere la gente disporre di beni in accordo con i propri bisogni. Bensì anche pe cambiare le condizioni storiche, così che le persone possano vedere che tutti sono poeti. Io lotto per la rivoluzione nel senso di servizio, perché la bellezza, la felicità non vengono semplicemente soddisfando i bisogni elementari. Come ho scritto in una mia poesia io voglio recuperare la condizione da seppelliti vivi e dimenticati, per tornare ad esistere.
Enrico Mario Lazzarin - Cosa c'è stato in America dopo la beat generation? Qui pare sia ancora viva, vitale.
J. Ma perché qui sembra viva? L'immagine dell'America per gli italiani è quella di un grande paese. L'America ha avuto questo grande movimento letterario che è originato da una tendenza seppellita in America. Da Walt Whitman, Jack London. Quella è la fonte di Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti, Corso. Ma dopo la secconda guerra mondiale è arrivata la morte.
Quest'anno ho vinto il premio "Alfonso Gatto". Per l'occasione ho tradotto un paio di poesie di Gatto. Un verso illuminante recita: "tutto di noi gran tempo è per la morte". Questa linea proviene dalla seconda guerra mondiale e la beat generation è l'espressione di difesa contro questa morte. Perché non va dimenticato che Henry  Miller, una sorta di padre della beat generation, anche se ad altro livello, ha descritto nel "Tropico del cancro" un luogo in cui tutte le persone sono morte. Ma se tutte le persone sono morte cosa resta da fare? Aprire la bocca e cantare! In quel senso la beat generation ha cantato contro i giorni grigi dell'America, culturalmente parlando, rispetto ad una poesia molto accademica. Poi è diventata una poesia commerciale e per tanti anni. Ma quale beat non è diventata comemrciale? E' complicato. Provo ancora a spiegarmi. Una delle cose fondamentali della beat è lo spinello. Non è una filosofia, anche se Kerouac era serio come buddista così come Gary Snaider. Ma allo stesso tempo tutto è riconducibile alla filosofia dello spinello. Altra cosa importante per la beat generation è il jazz. Ma sel la beat continua tristemente a dire, a parlare, è perché dopo la caduta dell'Unione Sovietica culturalmente nessun altro movimento ammette la voce di un poeta. La beat generation è legata all'oralità della poesia. Ciò è molto importante perché la poesia sulla carta è come lo spartito per la musica, ci vuole il suono, e la beat generation ha aperto la finestra in tal senso. Certo pima c'er stato Kenneth Patchen, un grande poeta americano legato alla classe operaia, lui ha letto jazz in poesia prima della beat generation e pochi altri. Poi diversi eventi, come il Vietnam, hanno intensificato la pratica della lettura. I miei amici della beat generation lo sono da lungo tempo, ma sono appunto amici. Soltanto Amiri Baraka ed io ci siamo identificati. Io bianco e lui nero. A noi non bastava scrivere poesia per il coro degli altri poeti. Noi siamo consapevoli che la vera avanguardia nel mondo sono i poveri. L'abilità di scrivere poesia sta nella capacità di servire questa avanguardia.   
E.M.L. Ci vuoi parlare di Gregory Corso che se non sbaglio hai conosciuto bene?   
J. Gregory per me è un amico. Ho scritto una poesia che è un ritratto di Gregory, che a lui stesso, penso, sarebbe piaciuto.
Dopo la sua morte ho letto tanti omaggi su di lui. Era molto difficile, terribile, con le donne specialmente. Ma allo stesso tempo, era un uomo schiavo, schiavo della droga, e per tanti anni. Io ho detestato quella sua schiavitù. Allo stesso tempo, (non consideratela una vanagloria: è poco più di una barzelletta!), Jack Michelin, Martin Matz, Gregory Corso, io ed un paio di altri, siamo i poeti della città di New York. Tutti gli altri sono extra........... extraurbani! Comunque, anche se era schiavo, io apprrezzavo Gregory perché sapeva con una grande sensibilità portare le sue notti, la sua droga, il suo alcool, le sue strade, - era un pazzo sulle strade! - nella poesia del mattino dopo. Gregory ha usato le immagini in modo molto inventivo, combinandole con i versi in maniera molto brillante. L'omaggio a Kerouak è forse una delle più belle cose che abbia scritto. 

Questa è la conversazione che Jack Hirshman ha voluto regalarci nel pomeriggio del 5 maggio 2007. La sera stessa, a Settimo Torinese, (cittadina vicina a Torino) in un teatro Garibaldi tutto esaurito, ha offerto ad un pubblico coinvolto e partecipe un reading intesno e combattivo, costruito su un intreccio avvincente accompagnato dalle note jazz del "The good life quartet".
La serata rientrava nelle iniziative della "Primavera dei Poeti" per l'organizzazione dell'entusiasta Laurent Leon dell'Associazione "Les Droles" di Giaveno e dell'infaticabile Enrico Mario Lazzarin per l'Associazione "Due Fiumi", con il contributo della "Casa della Poesia" di Baronissi e la partecipazione essenziale della Biblioteca Civica e Multimediale della città di Settimo Torinesre. Maestro di scena, insieme al direttore della biblioteca Riccardo Ferrari, l'impeccabile Sergio Notario.
                                                               Marino Tarizzo - Maggio 2007

L'intervista è stata pubblicata sulla rivista Corrente Alternata n. 59. N. 2 dell'anno 2007
  
Il Principe
per mio padre, Steve Hirscman

Passai il biglietto di buon compleanno (c'era dello spazio
tra il muro di pietra alla fine dei posti di gradinata
e gli steccati del fuorigioco proprio sopra l'esterno sinistro
nel vecchio Yankee Stadium)
a George Caster, lanciatore di riserva seduto in
panchina proprio sotto quell'undicenne che ero,
chiedendogli se potesse darlo a Hal Newhouser
quando il gioco finiva, se lo facesse, per favore.
Era il 29 maggio 1945.
I Tiger, per cui tifavo, erano primi e avrebbero vinto
la World Series.

Quando ho sentito che tu, mio lanciatore mancino preferito,
papà, non puoi più camminare, è troppo
il dolore.
46 anni dopo, utto torna, fino al
riso butterato sul viso di Caster
che prendeva la busta,
e il tio alto e l'apertura del mancino Principe Hall
che lanciava da lontano
una palla veloce e perfida dal dosso,
e il tuo grido sonoro
"Strike tre!"
sulle mie spalle.              da: Soglia Infinita (Multimedia Edizioni)

Traduzione Bruno Gulli


Volevo che voi lo sapeste
"non mi abbasserò tra professori e capitalisti"
Walt Whitman
Ero appoggiato al davanzale
di una finestra di una cartoleria
a Sacramento Road, aspettando
l'autobus n. 1 che mi avrebbe portato
dall'altra parte della collina, e leggevo
"Fra i neri ..."
dalla rivista OLSON
qundo un "Chestaileggendo uomo bianco?"
mi fece alzare gli occhi su
un tizio né nero, né bianco
il suo compagno (che continuava a salire
su per la collina), con una lattina
di birra in un sacchetto di carta -

(Filippino, pensai, a prima vista.)

"Una rivista di poesia," gli dissi immediatamente.
"Puoi leggermene una?" farfugliò
abbastanza sincero.
Ne recitai una delle mie, a memoria:
In coperina Stephen Hirschman
Conosco pance,
pance di bambini,
gonfie di niente,
incinte di fame.

Dentro,
bocche vuote
gridano: Perché?!
gridano: Quando?!

Basta con le bugie!
Basta con gli asini
che volano.
Organizzare

a partire dal basso
dai poveri
si può fare,
si deve fare,

si farà.
Ne hai avuto abbastanza?
Muovi il culo!
Facciamo la Rivoluzione.

Sgranò gli occhi, cominciava a snebbiarsi.
"Ehi, è buona," disse. "Sono
con te." Così gli diedi una copia del People's Tribune
mentre riprendeva a seguire il suo amico.

Continuai a leggere la poesia di Olson (lasciata fuori
dalle opere complete) che parlava di un nero
ammazzato da 25 bianchi per colpa della
sua voce,
quando il non-filippino, come in realtà
era venuto fuori, ma - mentre riscendeva -
hawaiano di nome Rick disse,
e aveva guardato il giornale
e gli poteva scrivere? ("Certo,"...)
e questo era il suo compagno, Jaun,
con una D gotica per Detroit
sul cappellino da baseball. ("E' la tua città?")
No, era di Santantonio.
Erano tornati giù solo per vedere, 
se avevo bisogno di qualcosa, era tutto okay, mi
servivano un po di soldi?? - No, stavo 
benissimo. Ci vediamo, fratello.
Stammi bene. 

Tornarono su lungo la collina scura
ultima di coperina
per andare a Chinatown Moon festival.
Spero gli sia andata bene.
Ebbi la sensazione
di aver fatto
un'esperienza poetica
autenticamente americana.

Volevo che voi
lo sapeste.

(1993)

da: Volevo che voi lo sapeste (Multimedia Edizioni)
traduzione - Raffaella Marzano

Quattro domande
a Jack Hirschman
Hei Jack che succede laggiù?
Che succede al bisonte perduto
che più non sa scartare di lato?
Dove razzola l'ultimo lek
il petto gonfio del gallo della salvia?
Sul sentiero di quale riserva
corre ora l'eco del canto dei nativi?
Dove sbuca l'ultimo tunnel
scavato per un altro giogo?
Ehi Jack
che succede laggiù?
Che succede nel cuore
del grande satana lacerato
dal botto di orripilanti demoni?
Che cosa accade davvero
dentro quelle tute arancioni
fuori dal braccio della legge?
Dove vengono riposti
i tetri sacchi in plastica
al rimpatrio delle mostrine?
Ehi Jack
che succede laggiù?
Solo rumori di armi
nelle scuole lungo i viali.
Solo onoranze ai ricchi
e calci in bocca a tanti ultimi.
Solo crude botte da negri
dalla polizia ai diversi neri.
Solo grappoli di bombe
esportate preventivamente
a chi non prega zio Sam.
Solo puzzo di petrolio
sotto i salmi della Bibbia.
Ehi Jack che succede laggiu?
Dov'è finito il sogno
dai colori arcobaleno?
Dove si è squagliato il cioccolato
regalato senza uranio?
Dove sono le parole
cantate sulla strada
di un vaggio senza frontiera?
Ehi Jack
che succede laggiù?
Jack, se lo sai, se tu lo sai,
raccontaci cosa accade.
Jack se puoi, se tu puoi
della libertà tradita
svelaaci il fulgido arcano.
Ehi Jack aspetta.
Ancora una domanda:
dimmi ora cosa succede quassù.
Ma stavolta fai come loro,
piuttosto menti senza scrupoli,
menti come un presidente,
ma non dirmi che quello
è anche il destino di domani
di questa provincia serva.

Marino Tarizzo


SERATA DI POESIA VAGABONDA CON DUE VAGABONDI ECCELLENTI.

Non poteva incominciare meglio la rassegna di "Poesia Vagabonda", organizzata come sempre e per l'ottava edizione, dall'Associazione Culturale Due Fiumi, (nella persona di Enrico Mario Lazzarin, organizzatore) in Settimo Torinese. A tenerla a battesimo sono stati due personaggi della cultura mondiale: Agneta Falk e Jack    
Hirshman, compagni di scrittura e compagni di vita.
Possiamo tranquillamente dire che con questa performance, tenutasi al teatro Petrarca nella serata del 21 settembre 2001, Poesia Vagabonda ha fatto un deciso salto di qualità. questo è motivo di orgoglio   e di piacere nello stesso tempo anche di timore e di ansia: la domanda che ci si pone dopo questa avventura è come si potrà rimanere, per future edizioni, sullo stesso livello?

Avventura, la serata è stata una vera avventura, un'avventura di testa e di cuore, un susseguirsi, quasi ininterrotto di emozioni che ti  fornivano, in contemporanea, momenti di intelligenza e momenti di passione e che ti stringevano in una morsa che ti impediva di uscire da quella atmosfera che si era creata tra palcoscenico fortemente illuminato e la platea totalmente buia.
Eppure era palpabile che luce ed oscurità si fondevano perfettamente e che non c'era alcun diaframma tra il qua-sopra e in là-sotto che le parole che di qua scendevano, là arrivavano perfettamente, senza aver perso neanche un frammento della loro, a seconda dei momenti, virulenza-potenza o delicatezza-tenerezza.
Sì perché entrambi, sia Agneta sia Jack, hanno una scala poetica vastissima che percorre tutto l'arco dell'umano sentire e che si traduce, dal punto di vista linguistico, in una gamma sconfinata, che permette di vivere e di far rivivere i momenti pregnanti del percorso di vita.

Jack Hirschman lo conoscevamo già molto bene. Agneta Falk, tranne per un fugace momento a Stupinigi in occasione di "Pulmann my Daisy", no, ed è stata una scoperta entusiasmante.
La sua poesia che si presenta, al contrario di Jack, all'apparenza, più sul modulo tenero-delicato (e la lettura che ne fa lei stessa assume questa tonalità, quasi una costante del "per sempre" o del "mai più".

Jack Hirschman, per quanto sia grande il palcoscenico, lo riempie in modo globale. La sua presenza fisica ti colpisce da subito e più quando incomincia a declamare con la voce possente le sue parole che sono enormi anche se accenna semplicemente ad "un bicchiere di plastica" (interludio umano). 
Questa è la sua rivoluzione nella scrittura, il riuscire a rendere enormemente visibili anche chi e le cose che normalmente nessuno neanche prende in considerazione e le fa diventare ridondanti, ma non nel senso di un barocco greve, ma di un barocco che ti affascina e ti riempie, mentre anche tu te le leggi, la bocca e il cuore. E continui a sentirle accumularsi nella stanza e colmare ogni angolo, fino allo spazio più impossibile, fino a che non rimane nemmeno più un frammento di spazio.

Due vagabondi eccellenti, che per sei mesi vivono a San francisco e gli altri sei mesi vanno in giro per il mondo (soprattutto Inghilterra ed Italia), eterni poeti "on the road", a portare la loro voce, a diffondere la cultura, questa sì tutta americana, del reading.
Sergio Notario
Articolo apparso sulla rivista "Terzo Millenio" - Ottobre 2001    

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