martedì 3 novembre 2015

DONNE A TUTTO TONDO: Marina Menghi da Skipper a maestra d'asilo, attrice e mamma (conversazione a cura di Silvana Copperi)

"La vela ed il mare mi hanno insegnato ad usare anche il corpo e non solo il cervello. Tutti i sensi e non soltanto gli occhi."
Conosco Marina Menghi perché ambedue abbiamo frequentato il laboratorio teatrale "Ildegard Von Bingen" diretto da carla D'Amato. Una sera ritrovateci a casa sua per un invito a cena, vengo a scoprire di questa sua passata attività. Incuriosita, mi mostro interessata e Marina con orgoglio mi fa vedere una rivista "BRAVA" del 1980 dove compare un articolo su di lei, in quanto all'epoca le donne Skipper in Italia erano una rarità. Così sempre sull'onda di quella curiosità e interesse ho pensato di proporre un'intervista da pubblicare sulla nostra rivista di quell'esperienza unica e irripetibile.
S.  Allora un bel giorno tu hai avuto questa bella idea di prendere il mare e siamo nel?
M. Diciamo che nel 76' pensai che mi piaceva l'idea di prendere la patente nautica per la barca a vela e allora avevo 23 anni.

S. E abitavi in un posto di mare?
M.  No abitavo a Torino. avevo degli amici che andavano in barca e pensai che poteva diventare un mio lavoro. Mi ero iscritta a medicina, ma non ho mai dato un esame, avevo capito subito che non mi interessava. Sono stata anche maestra d'asilo per due anni (lavoro che ho ripreso tutt'ora), ma ero mal pagata e decisi che quei pochi soldi potevo guadagnarmeli in altri modi.
S. Il fatto di essere donna?
M. E' stato lo sforzo più grosso. Per due o tre anni sono andata in barca facendo da secondo, "il marinaio". Mi dicevano: "vai che sei brava" ma io niente. Non tanto per lo sforzo fisico, anche se con le mie dimensioni facevo più fatica a manovrare. Era una questione psicologica. Non me la sentivo di prendermi la responsabilità di una barca.


S. Ma poi ci sei riuscita. Come hai fatto a superare l'ostacolo?
M. Cinque anni prima, assieme al mio compagno, avevo comperato una vecchia e affascinante barca a vela tutta di legno, la "CAMEHAMAH" e lì vivevamo e organizzavamo viaggi nel Tirreno, però finiva sempre che delegavo a lui certe manovre e tutte le decisioni, fino a quando, ad un certo punto, decisi di "fare" l'Atlantico. Attraversare l'oceano in quell'ambiente, era come un banco di prova, come un esame di maturità che qualifica professionalmente e apre prospettive di lavoro.  Questo è stato un viaggio tutto femminile e vale la pena di raccontarlo.
Insieme ad una mia  amica anche lei appassionata navigatrice lavoravamo al Salone della nautica di Genova e avevamo deciso di passare l'inverno a Londra per studiare l'inglese.   
Ma poi ci siamo rese conto che non valeva la pena in quanto a Londra l'inverno è molto freddo e l'inglese potevamo impararlo dovunque.
Così siamo partite per Gibilterra: pensavamo di offrirci come marinai sulle barche che si trasferivano alle Antille per fare "charter" durante l'inverno. Ma quando siamo arrivate le barche erano già partite. Di corsa andiamo alle Canarie, dove tutti fanno una sosta ma anche lì le più grosse erano già andate. 
Tra quelle rimaste riceviamo tre o quattro proposte poco convincenti, vuoi per la barca, vuoi per la gente che c'era sopra. Alla fine combiniamo con una barca francese, facciamo la spesa e partiamo.
La barca di soli dieci metri, ce la siamo gestita io e la mia amica per tutti i ventitré giorni di navigazione, perché il resto dell'equipaggio soffriva il mar di mare. 
Tornare indietro non si poteva per il vento contro e loro restarono in cuccetta per tutto il tempo. Noi due ci siamo date i turni. Leggevamo, scrivevamo, abbiamo fatto anche uno studio sui nostri sogni. Eravamo rilassate e sognavamo molto. A pensarci, forse, siamo partite un po' incoscienti ma la cosa certa è che non volevamo dimostrare niente a nessuno. Non ci interessava il gusto dell'impresa, avevamo solo voglia di stare in mezzo al mare e ci stavamo proprio bene. L'unico problema è che con il mare devi fare i conti. a se parti predisposta hai già risolto in partenza.

S. Sicuramente questo viaggio deve averti forgiata a dovere.
M. Si, la traversata dell'Atlantico mi ha dato sicurezza. Ho scoperto che posso cavarmela da sola usando anche il corpo e non solo il cervello. Tutti i sensi e non soltanto gli occhi. Il confronto con le leggi fisiche della natura mi ha liberata da una serie di paure.

S. Dopo questo viaggio che cosa è successo, qualcosa dev'essere cambiato nel modo di concepire il tuo lavoro.
M.Dopo aver lavorato nelle Antille per sei o sette mesi sui "charter" che trasportavano da un'isola all'altra, mi è venuto il desiderio di una barca nuova, più grande e attrezzata per allargare l'attività. Così ho telefonato ai miei amici in Italia i quali mi hanno risposto: "Vieni, ci stiamo pensando anche noi". Immediatamente sono ritornata a Napoli per realizzare questo progetto con i miei amici. Una barca a vela, naturalmente, in ferrocemento. Un Cutter Ketch di tredici metri con albero. Col motore non c'è rapporto diretto con l'acqua, il vento, i movimenti della luna e delle stelle.
Ritornata a Napoli, oltre alla ricerca dei materiali, degli attrezzi, e i turni alla libreria del mare da poco fondata a napoli e battezzata "Gulliver", per tre ore al giorno lavoravo manualmente, chiusa dentro un capannone e vivevo in una barca a Margellina.

S.Certo che ci vuole un certo coraggio, un bello spirito di avventura, energia e anche una certa libertà di spirito per buttarsi così a capofitto. E questo vale per chiunque, per quegli anni e non solo perché sei una donna.
Come ci sono arrivata non lo so bene neanche io. Mi piaceva andar per mare. Non sentirmi legata ad un posto. Avevo scoperto che la barca è un mezzo eccezionale per spostarsi, avere rapporti con la natura e anche con la gente. Ci sono amici dappertutto: nei porti e anche in navigazione. 
A Margellina c'erano anche altre barche abitate e non si viveva mica da barboni. la mia era una scelta, non una fuga. Bisognava organizzarsi per non morir di fame e di freddo. Poi bisogna dire che i movimenti politici e culturali di quegli anni ebbero il loro peso. 
La scuola negli anni caldi, il 68, la crisi, la voglia di restare comunque vivi, e stare in mare è stato un modo, personalissimo, lo ammetto, per riuscirci.

S. Il mare comunque e in tutte le sua accezioni. 
M. Si. Dopo questa avventura napoletana sono tornata ed ho fatto scuola di vela a Noli. 
E' stato molto carino perché c'erano i bambini ed i ragazzini. Stavano lì dieci giorni e il nostro compito era non solo di insegnare loro ad andare in barca, ma anche di vivere un'esperienza bella, a contatto con la natura.
L'esperienza più faticosa è stata "L'estate ragazzi". Sarà stato nell'85. 
I ragazzi venivano a gruppi di sei o sette per barca. Eravamo tre barche e solo uno di noi per ogni barca. Avevamo ragazzi tra i 17 e 23 anni. Quindi sia maggiorenni che minorenni e finché si era in mezzo al mare, anche se erano un po' svogliati e poco interessati ad imparare, comunque si stava bene. Poi tutte le sere si tornava al porto, non necessariamente sempre lo stesso.   Dopo cena si usciva e se eravamo in un posto sperduto al mando dopo circa mezz'oretta quelli tornavano alla base ma se eravamo allo stretto di Bonifacio, quindi in posti turistici, tornavano ubriachi e a volte dovevamo andare a cercarli in giro. Per i maggiorenni non c'era problema, ma per i minorenni la responsabilità era nostra. Per questo è stata un'esperienza molto faticosa.

S. Ad un certo punto c'è stata una svolta fondamentale. Vuoi parlarcene?
M. Intorno ai trent'anni ho smesso perché ho avuto paura di perdermi l'esperienza della maternità che consideravo una delle esperienze basilari attraverso la quale dovevo passare.
Allora nella mia mente era così. 
Poi quel tipo di vita era molto precario, si guadagnava solo d'estate e non a sufficienza per coprire i mesi invernali. Sicché sono tornata a Torino pensando: "Mi cerco un lavoro stabile, cerco un padre epr i miei figli e vado avanti. Così ho fatto.
Nel frattempo era successa un'esperienza tremenda. 
Un mio amico, che svolgeva anche lui questo lavoro, era su una barca di dodici metri insieme agli allievi nel golfo del
Sono stati recuperati da una nave che prima ha visto la barca vuota e l'ha presa a rimorchio  e poi ha lanciato l'allarme e li hanno trovati, ma il mio amico che aveva problemi di adattamento termico, anche se non era una cosa grave, in quella situazione non ha retto. E quella cosa lì per me è stata tremenda.
Quando i superstiti sono rientrati e sono venuto a Torino, avevano ancora tutti i segni. Erano stati parecchie ore in mare, ed il mare dove picchia cuoce la pelle. 
Erano venuti a casa mia a raccontarmelo e pr me è stato un fatto traumatico. Ora non sono neanche in grado di ripeterlo. Per loro è stata un'esperienza terribile e forse io mi sono immedesimata  in quella situazione.
A fine agosto sono andata a Rodi; dovevo prendere una barca per fare una crociera-scuola ma non sono riuscita a partire. Ho trovato un'altra persona che partisse al posto mio. 
Lì a Rodi c'erano degli amici che mi hanno ospitata sulla loro barca, ma quando arrivò il momento di partire stavo male, addirittura mi sono venute le coliche renali. Il mio corpo non ha accettato quell'esperienza vissuta indirettamente e da quel momento ho smesso definitivamente quel lavoro.
Sono andata ancora in barca con il mio compagno che era stato mio allievo. A lui piace molto e porta i ragazzi, mentre a me è passata completamente la voglia.

L'intervista finisce qui. Marina oggi è una donna a tutto tondo e quando al laboratorio teatrale lavoravamo lei usava il corpo. Il suo modo era aperto, il gesto ampio, cose se fosse stata ancora in mare a governare qualche barca e una luce dorata illuminava i suoi occhi e io avevo l'impressione guardandola che ci fosse ancora il mare dentro di lei a regalarle quella meravigliosa energia.

silvana copperi

L'intervista è stata pubblicata sulla rivista "CORRENTE ALTERNATA" Dell'Associazione Culturale Due Fiumi nel dicembre 2009


martedì 27 ottobre 2015

LUIGI TRIBAUDINO INTERVISTA AYAD ALABBAR

Caro Ayad, i nostri lettori ti conoscono ormai come poets ma sanno anche che sei pittore, scultore e scrittore oltre che docente all'Università e molti si domandano com'è che questa tua universalità ti ha portato a stabilirti a Torino. Perché proprio Torino?
Perchè sono a Torino? Ho girato non soltanto in Italia ma ho trovato che Torino è la città per me più adatta forse perché è un po' chiusa in sè stessa come la gente, e il sottoscritto ha lo stesso carattere, ha più o meno lo stesso modo di vivere perciò mi trovo bene qui. Nella mia vita mi sono innamorato di tre città: Venezia, Firenze e Parigi ma non ci abiterei mai.
Vi andrei magari per un paio di settimane, un mese al massimo, poi devo andarmene via se no le cose assumono un aspetto molto negativo e non mi esprimerebbero più la loro magnificenza. Per questo sono a Torino.
Mi sono trovato in questa città, meglio che in altre città italiane; poi ho avuto il mio lavoro all'università allora è stato questo il legame che mi ha fermato definitivamente.
Corrente Alternata si interessa di cultura in generale e in particolar di poesia, vuoi spiegare ai nostri lettori che è Ayad poeta?

Per cià che riguarda l'Ayad poeta è come parlare dell'Ayad scultore, pittore o dell'Ayad che non sa niente o sa qualcosa: è sempre lo stesso Ayad. Per me scrivere una poesia o per meglio dire inventare una poesia, è lo stesso che dipingere un quadro o scolpire una statua o cucinare un piatto buonissimo e delizioso. E' cioè arte. 
quando l'arte ha per suo oggetto - l'universale, i mezzi dell'espressione sono diversi ma il fine ultimo ultimo è lo stesso.
Sovente guardo un quadro e scrivo una poesia, sovente leggo una poesia mia o di un'altro e dipingo un quadro o ne faccio una statua. Poesia, statua, narrativa, libro, saggistica sono varie espressioni  di uno stesso concetto che io chiamo arte, o scienza o conoscenza, che deve avere come oggetto unicamente e necessariamente l'universale. L'Ayad poeta giovanissimo era un Ayad contentissimo di saper scrivere o inventare o comporre una poesia o tirare due segni o due disegni, ma ora man mano che andiamo avanti l'essere scontento è quasi sempre presente nella opera e in me stesso. 

Partendo da un presupposto (e non per essere presuntuoso) diciamo che nessuna opera d'arte è mai completa, quindi sono sempre alla ricerca della perfezione, forde perché sono troppo romantico.
Perfezionare un'opera d'arte vuol dire elaborarla continuamente, difatti per me ogni mio quadro è ancora da finire. Sono capace di prendere una poesia scritta all'età di quindici anni o sedici anni e completarla adesso, c'è sempre qualcosa da modificare. 
L'opera d'arte è un essere vivente, perciò muta nel tempo, cambia sia di sostanza che di aspetto.
L'unica differenza tra l'essere umano e l'essere arte è che l'essere arte è essere eterno e l'essere umano è mortale. 
Il problema da porre in questo caso è: come può l'essere mortale limitato e determinato creare qualcosa di immortale? La risposta unica che può esserci è che nella nostra mortalità c'è una parte immortale che noi di solito chiamiamo anima, o spirito, intelletto, o qualsiasi altra cosa. Ma è quella cosa lì che è immortale, è soltanto per mezzo di quella che noi possiamo creare opere immortali. Non siamo nient'altro che un ponte sul quale queste opere immortali camminano e attraversano da una sponda all'altra. Questo è molto importante.
La poesia araba ha una costruzione e una metrica del tutto diversa dalla nostra. Vuoi parlarcene?
Per ciò che riguarda la letteratura e in modo particolare la poesia araba è molto difficile parlarne in pochi minuti. La metrica araba è letteralmente musica e matematica, è stata scoperta molto tardi. nell'ottavo secolo dopo Cristo.
Un signore che si chiamava Al-halìl Ben Al-Faràhìdì aveva fatto una sua esperienza. era andato a raccogliere tutte le poesie scritte dall'età preistorica fino ai suoi tempi. Studiandole scoprì che queste poesie erano scritte su quindici tipi di metri e questi tutti formati da otto piedi. Dopo di che inventò un altro metro: il sedicesimo. Il problema è che gli arabi preislamici e anche quelli islamici fino ai quattro califfi ortodossi scrivevano la poesia, ma non sapevano che cosa era la metrica. In loro era innata la musicalità. 

Dopo aver studiato e classificato questi metri si è scoperto che erano tutti numeri, misure, calcoli, matematica e musica. 
Ecco che cos'è la metrica araba. Inoltre a differenza di quella latina e neolatina non è una metrica sillabale ma riguarda soltanto le lettere che si pronunciano perciò non si basano su endecasillabi o su lunghe e brevi. Ciascuna lettera consonante, è accompagnata con una vocale, questa vocale sia breve sia lunga dipende poi dalla formazione del fonema, o del nomena, se è di tre consonanti di seguito questa è una paletta leggera e separata, e via dicendo. Al-Halìl per ricordarsi di tutte queste denominazioni ha usato denominare le cose con dei nomi quotidiani, ad esempio il verso arabo si chiama bait cioè casa, la casa che cos'ha? Una facciata e una schiena, la prima parte del verso si chiama facciata e la seconda schiena.  Un fonema leggero si chiama paletta piccola, un fonema pesante paletta grande poi ciascun tipo di metro ha un suo nome, che lui ha chiamato mare; ciascun mare ha un suo nome: il mar lungo, il mar semplice, il mar della sabbia, il mar perfetto, il mar esteso, il mar tagliato  e  via dicendo.  

Questi sedici mari son formati da otto piedi e formano cinque cerchi che si possono usare in senso orario o antiorario per trasferirsi da un metro ad un'altro o magari a metà strada dal metro dal quale si è partiti all'altro. 
E' un mondo abbastanza complicato  complesso e difficile. 
Quando una persona ha una certa musicalità nell'orecchio e una certa abilità non necessariamente fortissima in matematica, riesce comunque a intendere e capire questo mondo che è praticamente musica.  Nient'altro. 
Cosa c'è da aggiungere sulla poesia araba se non che è come la poesia di qualsiasi altra nazione di questa terra. 
Quando questa poesia ha come oggetto qualcosa che non è determinata da tempo spazio e casualità allora questa poesia è eterna, e rimane sempre nuova e suscita nell'uomo in qualsiasi tempo lo stesso sentimento che ha suscitato magari tremila anni fa. 
Prendiamo ad esempio una tragedia di Sofocle e facciamola  recitare davanti a noi, sicuramente suscita in noi gli stessi sentimenti che ha suscitato più di duemila anni fa. 
Perciò questa poesia o questo prodotto artistico quando supera il tempo, quando non è candannata dal tempo rimane per sempre.


    
Per finire, nella tua attività di docente cosa pprovi quando insegni la tua lingua madre agli studenti torinesi?
Io sono innamorato della mia lingua, anzi esisto perché la lingua araba esiste, se no non ci sarei. 
Allora amo anche nello stesso tempo diffonderla e insegnarla. 
Quando qualche studente riesce ad andare fino in fondo e laurearsi con ottimi voti, acquisendo una buona conoscenza di questa lingua io sono felicissimo. 
Non sono altro che un messaggero, un elemento che trasporta da una parte all'altra una certa scienza e conoscenza.
Io ad esempio considero il mediterraneo una vasca da bagno, nonostante siamo vicinissimi l'uno all'altro siamo lontani l'uno dall'altro anni luce.
Mi sembra l'ora di aprire per conoscerci meglio, e poiché 
io ho i mezzi per farlo, l'attuo con tutta  la mia volontà.

Luigi Tribaudino



Questa intervista è stata pubblicata sulla rivista Corrente Alternata nel febbraio 19193

oasi: ospiti, un pomeriggio, di Ayad Alabbar


A pochi passi da un traffico intenso, ci troviamo in un gruppo di case, raccolte, quasi nascoste: protette dal silenzio.

E’ in una di queste case che siamo ospiti, un pomeriggio, di Ayad Al’Abbar.
Già subito in giardino ci accoglie un cavalletto con un’opera non ancora ultimata. Rappresenta l’universo; il blu, incredibilmente intenso è reso vivo da un mondo in movimento.

Entrando in casa un’oasi di frescura in un caldo pomeriggio d’estate. Una galleria di quadri tappezzano interamente le pareti. La complessità di ciò che rappresentano e il magnetismo che sprigionano rivelano una profonda spiritualità ed un grande intelletto oltre ad un altrettanto grande talento.

Il nostro ospite ci intrattiene parlandoci delle sue opere, di Salvador Daly suo maestro, dell’Accademia di Firenze, delle sue esperienze letterarie, culturali, di aneddoti di una vita avventurosa e affascinante, con fascinosa semplicità.

Ed è qui che abbiamo sempre di più la percezione dell’oasi, già percepita nella quiete del piccolo quartiere e poi confermata dalla sua ospitalità così signorile ed intimistica.

Un’oasi nell’oasi. “Non c’è via più sicura per evadere dal mondo che l’arte; ma non c’è legame più sicuro con esso che l’arte.”  (Ghoete)

Mi sorge spontanea una domanda “perché Torino?” (Ayad è iracheno di Mosul figlio di pascià) (oggi l’Iraq, Mosul, sono tristemente noti)  (ricordo molti anni or sono mi trovavo all’aeroporto di Ankara  in attesa del volo per l’Italia quando il tabellone ha annunciato un volo per Bagdad ed io con i miei compagni di viaggio idealmente abbiamo preso quell’aereo – Bagdad allora faceva sognare) La risposta è sorprendente e lui stesso ne è divertito. Ci dice che fra le molte città da lui conosciute nel mondo l’unica nella quale gli è possibile vivere è proprio Torino.
Questa città, così ai margini (soprattutto all’epoca l’articolo risale a marzo del 1994) dai grandi obiettivi nazionali. Noi torinesi ci sentiamo (ci sentivamo) defraudati di tutte le grandi iniziative nate qui a Torino e poi trasposte in città volutamente più prestigiose.

Questa città così metafisica, dal carattere così riservato, come la sua gente, si ritrova in sintonia con un uomo nato in Iraq, figlio antico della Mesopotamia che ha in comune con Torino, due fiumi: il Tigri e l’Eufrate in contrapposizione con il Po e la Dora!!!! Non so!!!!!

Tutto si potrebbe pensare tranne che un arabo si trovi  in sintonia con il carattere torinese!
Non soltanto, anche il nord più estremo esercita su di lui fascino ed emozioni, amplificando ulteriormente i già vasti orizzonti della sua cultura cosmopolita.
Ascoltando un brano di Sibelius, ci confida: “ho tratto ispirazione per una triade di quadri” di grande suggestione e bellezza.

Un uomo quindi dall’intelletto universale, anche se le sue radici sono profondamente radicate nella sua terra e nella sua cultura di origine.

E’ stato con piacevole mestizia che abbiamo salutato il nostro ospite, la sua casa, il suo mondo che un poco ci ha inquietato.
Soprattutto quando ci siamo ritrovati ribaltati nel quotidiano di sempre, in questa nostra vita che ci stritola con il suo inesorabile ingranaggio.

Mentre guidavo nel traffico sempre intenso, un po’ assorta, mi portavo via un pezzo di quell’oasi che rimarrà forse, un piccolo – grande punto di riferimento.

Questo articoletto apparso su Corrente Alternata la rivista dell’Associazione Culturale Due Fiumi nel ormai lontano 1994 – ho voluto qui riportarlo per ricordare un uomo speciale che ci ha lasciato prematuramente nell’agosto di due anni or sono e che aveva lasciato una traccia indelebile nel nostro cuore onorandoci con la sua sincera amicizia.